La copertina, e il carcere

Andiamoci a prendere un caffè a casa del professore. (Massimo Troisi in Scusate il ritardo)

Ieri siamo stati al carcere di Fossano (CN).

Siamo partiti dal Lingotto in lieve ritardo, pioveva. Ci è venuto a prendere un pullmino super attrezzato, aveva le portiere dietro che si aprivano da sole, l’acqua di cortesia, un caricabatterie per ogni tipo di telefono. Avevamo fame ma non avevamo tempo per fermarci a mangiare; l’auto correva sotto la pioggia dell’autostrada, eravamo stanchi e straniti, ci aspettava il carcere.

[Intanto non lo sapevamo, ma Martin Amis moriva].

Siamo arrivati poco prima del previsto al carcere, nonostante tutto. L’autista ci ha detto: Se volete avete il tempo per un toast.

Ha girato il pullmino, ci ha detto che lì viene a fare i motoraduni; ci ha portato al bar Roma.

Il caffè Roma di Fossano ha ancora le boiseries di quando aprì come Caffè di Città, nel 1858. Aveva tre anni quando fu proclamata l’Unità d’Italia. Nietzsche aveva quattordici anni, quando fu fondato; Einstein sarebbe nato ventuno anni dopo, l’illuminazione elettrica nacque in Italia lì vicino, a Verzuolo, venti anni dopo.

Abbiamo mangiato due toast al volo; siamo arrivati alle mura del carcere, non ci siamo detti una parola, pioveva più forte.

Qui sorrido - L'ingresso

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Abbiamo un’abitudine strana: sorridere alla camera. Lo si dice anche: Sorridi. Come se si dicesse: Indossa la maschera, non andar nudo in scena, Pulcinella.

Siamo entrati, ci hanno detto di metter giù tutto quello che avevamo, per cortesia. Sono stati gentili. Ho messo nello sportello numero dieci zaino, cellulare, chiavi, un fazzoletto usato, uno scontrino. Un altro po’ di roba. Ho suonato comunque al metal detector – Ha la cintura? Sì -, sono passato.

Mi sono detto: Non dimenticarti mai che poi tu esci.

Mi son detto: Non parlare troppo del mondo fuori.

Una delle due cose l’ho disattesa.

Forse entrambe.

Siamo arrivati a un campetto da calcio, in cemento verde. Abbiamo alzato gli occhi; i detenuti avevano appeso alle sbarre i loro vestiti da asciugare.

Non so perché, ma vedendo quei vestiti appesi ho pensato: Allora è vero.

C’è un momento prima di ogni lezione di scrittura in cui entro. Vale ancora di più per gli incontri dal vivo; e vale per le presentazioni. Mi prendo un minuto per entrare. Ieri non avevo un minuto; e allora quel minuto ha preso me, davanti a quei panni stesi.

Mi son chiesto come si facessero il caffè, lì.

Intanto avevo scritto a Francesca, le ho detto che non avremmo sicuramente fatto in tempo a prendere il treno delle 17.20 (erano le 15.20, tra presentazione e ritorno ci avremmo messo almeno due ore, più le dediche), le ho chiesto di prendermi il biglietto delle 55.

Ma ora non c’era più il cellulare.

Siamo entrati, mi hanno ringraziato; mi sono chiesto: perché mi ringraziano?

E ho pensato una verità che mi sfuggiva sulla famosa storia dell’impostore.

Non è che le persone intelligenti pensano di essere impostore, e le altre no.

Le persone intelligenti lo sanno. Chi non lo sa, non è intelligente.

Siamo tutti impostori. E quello già è un ottimo motivo per sapere che siamo fuori sulla parola.

"Siamo tutti impostori. E quello già è un ottimo motivo per sapere che siamo fuori sulla parola".

Mi sono messo a parlare. Della presentazione dirò poco; solo due cose.

La prima è che Fabrizio mi aveva chiesto se avessi topic da affrontare. Ho detto: Non sarebbe rispettoso nei loro confronti. Arrivo aperto, chiedimi quello che vuoi.

La seconda, che ho detto della copertina. All’inizio non mi piaceva, ma ha due parti – una in luce, l’altra in ombra. È divisa in due come un chicco di caffè, che ha una spaccatura nel centro.

Ho detto qualcosa del tipo che lo scrittore è come quel chicco di caffè, che ha una spaccatura nel centro. E che se è serio, quella spaccatura la valorizza, non la chiude; perché sa che lo divide, sa che attraverso quella spaccatura è passato l’inferno, ma sa anche che tramite quella ora passa l’aroma. Se non lo fa, non è un impostore, aggiungo ora: è una persona inutile, o un pezzo di merda.

È stata la prima volta che ho pensato alla copertina, realmente. Ho pensato: è per questo che mi piace.

Perché è spaccata in due: un lato in luce, uno in ombra.

Poi ci sono state le domande, quelle ci son state e ci saranno; ci sono state le domande dei detenuti, vi ricordo e porto nel cuore, i nomi di chi ha parlato me li ricordo, Ruggero, Salvatore, Enzo, Ousman, Amine.

A un certo punto mi hanno chiesto: qual è stato il punto più lontano da qui in cui hai bevuto il caffè?

E ho detto: Los Angeles, a novembre. Ho spiegato della donna che mi ha preparato un panino spettacolare, su w San Fernando Rd, 

E il caffè migliore?

Ho detto: Manarola, a gennaio. Ho detto del rumore del mare.

Perché ho pensato che se avevo parlato loro delle miserie, potevo parlare anche di fuori. Ho pensato che avessero il diritto di sapere di fuori, o che io avessi il dovere di non proteggere nessuno da niente. Fuori c’è Los Angeles, ci sono i caffè di merda e i caffè buoni, c’è tutto.

Lì mi son dimenticato anche che poi sarei uscito. Solo, ho pensato: Ok, son riuscito a non emozionarmi. 

È finita la presentazione, ho visto S. e A. alzarsi, ho detto: Peccato, se ne vanno.

E invece erano andati a prendere i miei regali.

E lì ho pianto. Perché mi hanno detto: grazie per averci onorato della tua presenza, e io ho pensato: macché, grazie a voi di avermi onorato della vostra.

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(La foto delle lacrime non ci interessa, poi).

I regali li vedete in foto, sono la copertina del mio libro fatta in ceramica da Salvatore e una statua in ferro di una tazzina fatta da Amine.

Qualche notte fa ho sognato che Gesù eran due persone, e mi dicevano: Non ti preoccupare, Ivano: andrà tutto bene.

Stamattina cerco il carcere di Fossano su Google maps, e trovo questa foto.

Andrà tutto bene, ragazzi.

Poi Martin Amis è morto, siamo arrivati al treno appena in tempo, abbiamo trovato posto accanto a un tizio che aveva due ratti nel trasportino; mi sono addormentato in treno guardando una partita di Anish Giri, e quando mi son svegliato ho detto: Stasera non ne posso scrivere, lo faccio domani, cioè: Ora.

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5 commenti su “La copertina, e il carcere”

  1. Emozione e commozione. Non sapevo niente del carcere finché mia figlia non ha fatto un corso di mediatore culturale in carcere. A Rebibbia. Allora ha iniziato a parlarmi di persone, di umanità, di depressione, di claustrofobia, di errori-sì le persone sbagliano. E un prete della mia città è approdato a fare il cappellano proprio a Rebibbia, anche dalla sua cronaca, quasi giornaliera sui social, esce fuori la disperazione e l’impotenza di poter fare poco.
    Grazie per esserti donato a quell’umanitá invisibile.

  2. Michela Tognotti

    Sono esperienze forti.
    Ho cantato più volte in carcere, con il coro, per cui l’intensità dell’emozione l’ho condivisa con le mie compagne e compagni. Tu, invece, hai sopportato da solo il peso della situazione.
    Due cose ricordo con forza dei concerti: un paio di detenuti, ai quali era stato impedito di partecipare, agitavano le braccia attraverso le inferriate della cella e urlavano perché avrebbero voluto assistere; un detenuto, appassionato di musica, che alla fine del nostro concerto, ci chiede se può cantare un paio di canzoni accompagnato dalla nostra band: sì che può; ha preso il microfono e ha cantato Pino Daniele e Lucio Battisti, mentre noi gli abbiamo fatti I cori.
    Poi il buffet preparato da loro.
    Ci hanno dedicato lettere commoventi, che abbiamo appeso nella sala dove proviamo.

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