Stamattina ho perso la fermata.
Per arrivare a Bergamo, nello studio di psicoterapia col quale collaboro, devo prendere diversi mezzi.
Prima, il 15 per arrivare alla fermata della metro. Erano le 8.30.
Poi, la metro fino alla Stazione Garibaldi. Era piena di gente; una giovane donna indossava un cappotto arancione, o forse mi sbaglio, era verdino; un’altra leggeva un libro di Vonnegut.
Poi, il treno da Garibaldi a Bergamo. Sul treno, un tizio tirava su col naso e aveva una valigia con gli adesivi delle destinazioni in cui era stato. Mi sono messo le cuffie antirumore, ho letto una settantina di pagine di Il mio desiderio feroce (Socrates 1995), di Keith Jarrett.
Infine, il tram da Bergamo stazione allo studio.
E lì sbaglio sempre fermata. Perché dal 15 alla metro ci sono diverse fermate, dalla metro a Garibaldi una decina, da Garibaldi a Bergamo il treno si ferma lì e non c’è modo di sbagliarsi; ma fermarsi alla prima stazione non è cosa per me.
Sto lavorando al saggio che uscirà a inizio maggio, e mi viene in mente che forse tutto questo è connesso. Non c’è Vonnegut, non ci sono cappotti arancioni, ma forse – indirettamente – entreranno (sto cercando di piazzarci la morte di Coltrane, avvenne a conclusione della rivolta di Newark, aveva solo 40 anni). Però ci sono i viaggi, e le leggerezze; c’è il dormire, sicuro, e il caffè che ho bevuto.
Di solito, come stamattina, mi accorgo solo tardi che era la mia fermata e tiro fino alla fermata dopo. Che è brutta, triste, e chi lo sa perché, piove o nevica sempre. Se fossimo in un libro di McCarthy, pioverebbe anche cenere. Ogni volta siamo lì io e un qualcuno, guardiamo in alto; abbiamo sempre la sensazione di essere nel posto sbagliato, che in qualche senso è sempre vero.
Poi qui dovrei continuare il testo. Dovrei parlarti di quell’esercizio di scrittura che mi son dato, che consiste nel tramutare la tastiera in un piano attraverso questo sito, e suonare sempre e solo la stessa nota per capire quale sia la nota di fondo, il ritmo, sintonizzare la propria voce e trovare indirettamente la propria voce di base.
Dovrei dire che ieri sera sono andato con la figlia della mia compagna a lezione di cucina, e abbiamo fatto una gricia incredibile, e imparato a saltare la pasta.
Dovrei forse dire che i pantaloni mi stanno larghi, e che sto riflettendo molto sul disagio che ha un corpo che dimagrisce, il disagio che ha il corpo nel riconoscere come estraneo ciò che per troppo tempo gli è stato di protezione.
Dovrei dire di quanto mi piaccia questa foto qui sopra; e della connessione tra desiderio, verità, e la nota di fondo.
Ma sono in studio, appunto, tra qualche minuto arriverà un paziente; mi devo preparare, a domani.
(Poi, se vuoi più informazioni sul mio lavoro in psicoterapia, clicca qui).