Due anni fa usciva Un Re non muore.

Ivanino gelatino

Due anni fa, in questi giorni, usciva Un re non muore.
Per me è stato una sorta di apice della mia attività di scrittore; un matto spettacolare in sette mosse, calcolato mossa per mossa; ma da ogni libro ho imparato qualcosa.
(Lo so che si dice sempre, ma ho la fortuna di aver pubblicato il giusto, né troppo né poco; e di aver quindi avuto la possibilità di imparare qualcosa da ogni libro).

[Non vi tedierò coi link dei libri. Si trovano tutti qui].
La conservazione metodica del dolore mi ha insegnato che i miei pensieri potevano avere un ordine sequenziale, e che questo ordine sequenziale non soltanto aveva un senso, ma il suo senso aveva senso: cioè, produceva uno spostamento avanti non del motore, ma della macchina. Alla fine de La conservazione, Benito non è più l’uomo di prima; e non lo sono io.
Quando dice Benvenuti, per dire, mentre la frase iniziale era Io sono epilettico; parte con l’io, finisce col Voi.

Questa è la mia citazione preferita – sono tutte a memoria, a volte c’è di meglio:

È successo a Bologna, ai tempi dell’università. Chiuso in casa, studiavo un manuale di Storia del cinema di seconda o terza o quarta mano. Gli altri, fuori a cercare di dimenticarsi chi erano stati; proprio mentre io provavo a ricordare. In quei giorni avevo l’alito che sapeva di prugne o di strisce di liquirizia, o se ero fortunato d’anice; annusavo l’aria che era di Natale, come l’aria di oggi, e mentre scorrevo le pagine immaginavo come sarebbe stata la carne di Alice, mi chiedevo se Alice m’avrebbe voluto ancora, se Alice avrebbe voluto far parte un’altra volta di me. Alice che aveva questo alito meravigliosamente adorno di tabacco; la sua lingua sembrava una serpe fatta di Merit; attorno al suo collo una sciarpa verde trifoglio.

Nudi come siamo stati mi ha insegnato che potevo essere non solo logico, ma potente. Per me, alcune scene e alcune frasi di quel libro sono la mia misurazione personale con l’impotenza; e, meglio, la paura della potenza.
Un autre ennemi!, è la potenza.

Mi allungò un foglio di carta velina, un carboncino.
«Disegna il tuo nemico, Severo.»
«Su questa carta si rompe.»
«E si rompa. Solo il volto. Il viso del tuo nemico. Non disegnare altro: voglio il viso, per riconoscerlo.»
«Non posso...»
«No, non puoi tenerlo.» Picchiettò sul foglio. «Qui, vai.»
Disegnai un gorilla. Il volto, incupito. Non lo guardò; lo mise sotto ad altri fogli, me ne porse uno nuovo.
«Bien. Disegna il tuo nemico.»
«Un altro?»
«Hmm.»
Disegnai un clown. Lo disegnai simile al pagliaccio del McDonald’s, vagamente di taglio: non ho mai trovato un deterrente maggiore per quei panini.
«Un altro nemico.»
Feci il mio ritratto. Lo guardò, sorrise.
«Troppo facile. Un altro nemico.»
Disegnai mio padre. Iniziavo a sentire dolore alla mano, e alla schiena per la posizione. I tratti si facevano via via più stretti; il profilo, più tagliato.
«Un autre ennemi.»
Lo guardai. Era di nuovo centrato nella rabbia. Disegnai un nuovo gorilla: non mi veniva in mente nulla.
«Un autre ennemi!» Alzò il tono.

L’Argentino, è il gioco musicale nell’ordine, la prima pagina con tutti i soprannomi, Nando Nandito Nan; e la gioia nel disordinarlo. Ed è la prova provata che il peccato può mondare.
La scena erotica in cui Maria Azul si fa lavare dal piccolo Fernando, che gioia averla scritta io.

Assorto nei miei pensieri facevo per tornare al bar a riferire il messaggio che il locandiere m’aveva assegnato, quando vidi Maria Azul che dietro una tenda si lavava, da una fontanella che aveva ai piedi di casa sua e che Salomón quando aveva più forze e meno anni le aveva acconciato a doccia. Si accorse di me; tirò la tenda in modo che potessi aiutarla, e non c’era nessuno. «Svelto» disse, ed entrai.
Si stava strizzando la spugna, passandosela sul corpo. Accanto a lei un sacchetto di mandorle mezzo aperto, sì che diverse di queste stavano sul tavolino lì accanto (alcune bagnate, altre asciutte).
«Ne vuoi una?» mi fece. Stava piegata in due; io grossa fame non ne avevo, ma forse un po’ sì.
«Aiutami, Fernando» mi disse. «Poi ti do un paio di mandorle. Son buone; non speciali, ma buone.»

Le Fiabe così belle che non immaginerete mai sono state il primo momento della mia vita in cui mi sono trovato a ridere scrivendo. Mi svegliavo la mattina, e ridevo – qualcuno lo ricorderà: le scrivevo la mattina, una al giorno, e le pubblicavo su una pagina FB che non esiste più; poi le modificai e raccolsi in volume. Non ho mai riso così tanto in presentazione come quando io e il Bussola abbiamo fatto il dialogo tra i due fratelli della gara all’incontrario.

“Ma per farlo devo aspettare che tu parta”.
“Sì, poi mi metti un’altra lametta”.
“Ti ho detto che mi ero sbagliato. Mi era caduta dal rasoio”.
“A nove anni”.
“Ho avuto una pubertà precoce”.
“Sei una merda”.
“Il papà te l’aveva detto di bere piano”.
“Oggi se voglio bere il caffellatte devo passare la tazza al metal detector”.
“La prossima volta ti metto una lametta di ceramica”.
“E se voglio andare all’aeroporto mi fanno storie perché suono”.
“Secondo me hanno tarato i macchinari su: testa di cazzo”.

Le poesie di Parole d’amore che moriranno quando morirai sono il primo contatto col mondo dell’impulso. Le pensavo in autostrada, o in alberghi a Follonica; una fra le mie preferite resta questa. (La riscriverei uguale? No. Ma sono passati tanti anni, e tutto lo stile è cambiato; scriverei diversamente tutto, dalla prima pagina all’ultima, chi non ripensa a ciò che ha fatto è un cretino o un santo, io non sono nessuno dei due).

Non chiedeteci le margherite
Se le nostre mani sanguinano
Reggendo questi fiori. Se dei campi
Abbiamo scelto quelli coltivati
A ortiche, per porgervele in silenzio,
O i roseti in costa al bosco. Ci siamo
Messi scarpe basse – la menzogna
Sei il primo tu a pagarla – e mossi
Saturi di buone intenzioni a
Confini che pensavamo nessuno
Avesse varcato. Là abbiamo rinvenuto
Orme, e brandelli di tessuto, e i
Corpi dei vostri vecchi amanti, alcuni
Ancora caldi, altri – te lo ricordi, lui?
Ridevi
Mentre ne parlavi – le ossa composte
In gesti d’antico lutto. Recavano i vostri
Volti nelle collanine, o stretti in mano, e
Qualcuno era di ritorno con fili d’erba
Ancora tra le dita. Quando torneremo,
E se, non chiedeteci le margherite.

E poi, Un Re non muore e Nero & Bollente. Pare strano, ma il Re è stato la prima volta che mi sono sentito scrittore – davvero. Intendo: nel Re ho preso il mio difetto, gli scacchi, e ho detto: Non siete noiosi, siete noiosi per il mondo, ora spiego perché non lo siete per me. E lì ho scoperto che non erano neanche noiosi per il mondo; ero io che, come un adolescente, vedevo solo le mie bruttezze supposte senza notare che insieme creavano un quadro bello – a tratti bellissimo, sì. Col Re, ho detto: la mia voce conta.
Per esempio, in questo passaggio:

Il problema del foglio bianco non è che non sai cosa scrivere, ma che la guardi, quell’enorme distesa bianca, ventinove centimetri e rotti per ventuno, margini cinque cinque quattro quattro, e non riesci a sentire cosa ti stia dicendo: ogni rumore è compresso nel silenzio della neve, e ogni traccia d’inchiostro sono suole sporche sulla neve. La guardi, quell’enorme distesa bianca, otto case per otto case, e non ci sono mosse buone. Né capisci cosa ci sia, in fondo al cammino. Il Cristo muto di Fernandel, gli ha parlato fino a mezz’ora fa e ora non si vuole più esprimere; i silenzi di Tenco sono nuvole e mari e le gocce di pioggia che restano appese al cielo e non riescono a cadere. I silenzi di Mauro Ermanno Giovanardi sono respiri, soffi, sbuffi; i silenzi di Gillespie sono sbuffi prima di soffiare. Ti sembra l’urlo delle donne nel Compianto sul Cristo morto, quello di Michael Corleone sulla scalinata, così interiore e duro. Una tela di Fontana, senza rasoio. Ecco: un foglio bianco è una tela; tu devi portare il rasoio.

E con Nero & Bollente, è passato ieri mattina in Rai al TG2, la rubrica era Eat Parade, ho detto: il mio passato è qua, tutto in questa pagina, in questa tazzina, in questo momento.
Come qui, nell’augurio iniziale:

La mia speranza è che usiate questo libro come noi usavamo il pallone di cuoio e le scarpe buone il pomeriggio dei giorni di festa.

Fatemi sapere qui sotto nei commenti qual è la vostra citazione preferita, o mettetela sui social con hashtag #ivanoporpora o taggandomi (mi trovate ovunque, dài).

Anche perché sto finendo il nuovo romanzo, tra poco ne avrete una nuova, di citazione, c’è già una frase che mi piace assai, è questa.

Mi incamminai verso casa. Lei, come al solito, era sparita, dissolta dentro i movimenti interni della città. Mi fermai a pensare ai miei piedi, al trambusto che dovevano fare rispetto al mondo delle formiche. Una formica media pesa circa 4 mg; io peso 110 kg, e il mio cuore credo sia intorno ai 300 grammi. Soltanto il mio cuore pesa come 75000 formiche.

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