In ricordo di Bobby Fischer

Ieri Robert J. Fischer avrebbe compiuto 80 anni.

Sono quindici anni che non è più tra noi; quindici anni che il mondo degli scacchi è orfano di re.

Prendo direttamente dal mio saggio, Un re non muore:

E poi il 17 gennaio del 2008 è arrivata la notizia; ma quella che nessuno, mai, avrebbe voluto.
Bobby Fischer è morto per insufficienza renale all’età di sessantaquattro anni al Landspítali Hospital di Reykjavík – città che l’aveva accolto qualche anno prima e in cui aveva vissuto, forse finalmente in pace, gli ultimi tempi della sua vita.
La più bella copertina delle riviste del settore l’ha proposta Europe Échecs, la più importante rivista francese, nel numero di marzo 2008: una pagina totalmente nera con l’anno di nascita in alto e quello di morte in basso, grandi ma sfumati – e così appena visibili – ; e, nel mezzo, la firma, color oro.
Ogni volta che riguardo quella copertina penso la stessa cosa: quale sia, mi chiedo, il significato simbolico di quella firma là in mezzo.

La copertina di Europe Échecs del numero di marzo 2008 cui faccio riferimento è questa:

Mette ancora i brividi

Scrivendo il saggio, ho pensato mille volte: Non parlare di Fischer. Perché Fischer lo conoscono tutti, alla fine, su di lui sono stati scritti libri eccellenti e ben documentati; e perché non era lui l’argomento. Ma è anche vero che è come parlare del sistema solare senza parlare di Giove; puoi farlo, in qualche modo, ma ti perdi il pianeta più grande.

Se mi chiedessero negli scacchi chi sono i miei miti, andrei in difficoltà. Non posso non citare Tal’, Ivanchuk e Chigorin: uno perché è talmente incomprensibile che fa girare la testa, il secondo perché è come andare a teatro e scoprire che quel giorno recita Dioniso, e il terzo perché se da qualche parte ho iniziato, ho iniziato col libro della Prisma su di lui.

Ma se mi chiedessero chi sono i tre più forti, avrei pochi dubbi: Alekhine, Fischer e Kasparov.

Perché non Carlsen? Perché la dimensione di un gigante la stabilisci dalla dimensione del suo avversario. Carlsen non ha un avversario del suo livello, e questo è sicuramente dovuto alla sua grandezza; ma anche al fatto che i Grandi sono invecchiati, o non sono all’orizzonte. Vishy Anand ha più di cinquant’anni, per dire. Kasparov ha avuto Karpov (!), e poi Kramnik, Ivanchuk, Anand tra gli altri; Alekhine ha avuto Capablanca (!!), e poi Keres, Rubinstein e altri; Fischer ha avuto l’intero sistema sovietico (!!!). Un libro meraviglioso edito da Caissa Italia, I russi contro Fischer, mostra qual era l’apparato scacchistico contro cui si scontrò lo statunitense: gente come Botvinnik, che pure contro di lui giocò solo una volta, mi pare, Smyslov, Tal’, Petrosjan, ovviamente Spasskij, e poi Kortchnoi, Geller, Polugaevskij, Keres, il povero Taimanov, Bronstein, Averbakh.

Questa è la lista Elo del 1970, per darvi un’idea:

1

2

2=

4

5

5=

7

7=

9

10

Fischer, Robert James 

Korchnoi, Viktor

Spassky, Boris V. 

Geller, Efim P. 

Larsen, Bent

Petrosian, Tigran

Botvinnik, Mikhail

Polugaevsky, Lev

Portisch, Lajos

Smyslov, Vassily

g USA

g URS

g URS

g URS

g DEN

g URS

g URS

g URS

g HUN

g URS

2720

2670

2670

2660

2650

2650

2640

2640

2630

2620

Sette russi, un ungherese, un danese.

E un americano lì in cima.

Siamo nel 1970, appunto. Solo un anno dopo, nei quarti di finale dei Candidati al Campionato del mondo, Fischer batterà il russo Taimanov 6-0, un bagel tennistico con cui si sbarazzerà di un grande scacchista – che di lì in poi verrà punito in modo brutale dal regime sovietico. Qualcuno parlerà di avversario bollito; ma nella sfida successiva, la semifinale, Fischer piegherà in modo altrettanto veemente, 6-0, il danese Larsen (è il quinto lì su); e poi chiuderà il cerchio sconfiggendo l’ex campione del mondo Petrosjan (è il sesto, lì su) 6.5-2.5, con una sconfitta, tre patte, e cinque vittorie di cui quattro d’infilata, a chiudere i conti.

Spiegare la dimensione dell’americano non posso, e non voglio chiudermi in piccolezze che riguardano la follia, il senso di persecuzione, il Giappone, l’Islanda. Chi vuole, può trovare ciò che ho voluto filtrare di buono e interessante nel mio saggio; o un lavoro eccellente cui mi sono rifatto è Finale di partita, di Frank Brady (Il Saggiatore), o anche Fischer world champion! di Jan Timman (New in chess).

Le sue 60 partite, invece – un libro che ogni scacchista dovrebbe avere – sono ripubblicate da Caissa Italia; il link al prodotto è questo.

Chiudo con un aneddoto sì, che – vado a memoria, ma si parla di quasi trent’anni fa – scrisse Stefano Pistolini, mi pare in Gli sprecati.

Disse di aver conosciuto Fischer, di averlo intervistato, o forse aveva letto quest’intervista, o visto un documentario, non mi ricordo.

E Fischer diceva che si stava esercitando coi pesi.

“Quali pesi?” disse l’intervistatore.

Fischer rise, e disse: “Questi”.

Andò in mezzo alla stanza, mostrò niente, per terra, e disse: “Sono capace di alzare già 70 chili”.

Si chinò, prese il bilanciere che stava solo nella sua mente, aprì le mani, le chiuse sul ferro; contrasse la schiena; e, iniziando a sudare, tirò su il peso fino alle anche; stette fermo lì, tremando; poi lo mise giù.

L’intervistatore rise e disse: “E perché non ne tiri su cento?”

E Fischer, sinceramente stupito: “Perché non ci riesco ancora”.

Non credevamo fosse possibile che un uomo così morisse; o che morisse senza ravvedersi, senza partecipare all’ultimo torneo, magari un semilampo.

Queste sono le due lapidi con le quali lo ricordo oggi.

Questa, è quella in marmo: 

Si trova a Laugardælir, in Islanda.

Mi piace pensare che non possa appartenere a un’altra terra, lui re del ghiaccio e del fuoco.

L’altra tomba è in legno.

Si tratta della partita 6, chiamata The Applause. (Qui l’analisi di agadmator). Non è chiaro se effettivamente Spasskij si alzò o meno ad applaudire l’avversario alla fine di questa partita; ma lo facciamo noi, che abbiamo assistito all’autodistruzione, forse uno dei due volti più feroci del genio.

 

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