A tre anni dal lockdown
A fine febbraio entrai in un negozio di via Torino e vidi questa cintura.
Decisi che sarebbe stata mia. Costava tanto – più di quanto non accetterei di pagare una giacca; ma mi sembrava il momento della svolta, quello, e mi piaceva l’idea di affidare la mia svolta personale – il trasferimento da Viadana a piazza Sant’Agostino a Milano, un nuovo modo di confrontarmi con la vita, le ore, i giorni – a una cintura con l’immagine di Lucio Dalla.
Il giorno dopo chiamai, e mi dissero che erano in attesa di disposizioni.
In attesa di disposizioni.
E qualche giorno dopo scattò il lockdown.
Ci dissero di non uscire, prima; poi ci dividero in zone con codici colore. Non si poteva passare da una regione all’altra, a volte da un Comune all’altro; ricordo che cercai informazioni per capire se si poteva stare in regione, uscendo e rientrando (per andare da Milano a Viadana bisogna fare circa trenta chilometri in Emilia Romagna).
La mia reazione prima fu, credo, quella di tutti. Mi chiusi in casa, come tutti e nessuno.
Uscii un’ultima volta l’8 marzo, andai sui Navigli che già erano sgombri; ma la paura che si respirava era troppa.
Capii la differenza di quella che ora chiamo l’escalation e la de-escalation dell’antagonista secondo la scala di frustrazione. Avevamo, semplicemente, bisogno di nemici attaccabili; e ce la prendevamo coi runner.
Ricordo che passai quasi una settimana a letto, guardando il soffitto.
Mangiavo ciò che avevo in casa, non potevo panificare ma comprai alcolici; chiamavo i rider quando non avevo voglia di fare la coda con l’app davanti all’Esselunga, aspettando che dieci persone uscissero perché dieci potessero entrare. Il lievito madre non si trovava da nessuna parte; in compenso mangiavo Pringles e polli arrosto.
Poi mi dissi: Forse è un’opportunità.
Mi sembrava atroce, parlare di opportunità a marzo 2020, mentre le salme uscivano dagli ospedali in sacchi neri.
Però la vita la incontriamo anche nell’atrocità.
Credo che mai come in quel momento la mia generazione abbia toccato con mano una sorta di depressione collettiva, nella quale ha dovuto ridefinire esigenze, bisogni, risorse. Ci siamo attaccati a tutto. Guardavo le finte case fatte in Amazzonia, i video di produzione musicale in cui cercavano di ricampionare una linea particolare di una canzone di Angèle, ovviamente Masterclass, i video di magia, i video commoventi di X Factor, le impressions, i falegnami, appunto. Studiavo scacchi su Nurtr, scrittura un po’ ovunque, analisi del film, eccetera.
E avevo paura.
Ecco. Abbiamo vissuto una paura, sconfinata nel panico, che ci ha fatto saltare gli schemi e ci ha costretti a riempirci di risorse.
Se mi chiedessero pubblicamente se tornerei indietro, direi: Mai.
Se me lo dico privatamente, non sono sicuro che la risposta sia la stessa. Perché a volte il panico sa davvero essere il nostro migliore amico, ci scolla dalle cazzate – la cintura, poi, non l’ho mai comprata -, ci costringe a vedere quello che siamo, volenti o nolenti.
3 commenti su “A tre anni dal lockdown”
Un tempo speciale, dove il fuori era tremendo, spaventoso, ma pian piano diventava anche affascinante, nella sua sobrietà, pulizia, essenzialità, l’altro era il pericolo più grande, la paura più incommensurabile se era fuori, il sostegno fondamentale se era dentro con te, nel privato si imparava a condividere magari il poco spazio ed il tanto tempo a disposizione. Si un tempo unico ed irripetibile, si spera!
Precisamente. “Una cosa bellissima che non farò mai più”.
Un testo bellissimo, che fa tornare a galla emozioni forti e divergenti. A farci caso, nessuno parla più di quel periodo, quasi fossimo in preda ad una rimozione collettiva. E invece quei giorni ce li porteremo dentro per sempre.