Una lettera che non scriverò mai.

Una lettera che non scriverò mai è quella che ho iniziato a pensare mentre camminavo, un giorno di un mese fa, camminando all’angolo con via Cermenate – quasi correndo, il 95 era lì che scappava. Mi accompagnava un ricordo di mani screpolate dal freddo, tanti anni fa, quando la mia pelle troppo sottile e troppo delicata non reggeva la candeggina; e quella di mani che sapevano fare qualsiasi cosa: dal montare una mensola storta a piegare un angolo di carta con la precisione di un origami. Mani che ho visto accarezzare e arrabbiarsi, mani che avevano il sapore delle madonne e dei vaffanculo e dei piango, delle messe a terra, mani che portavano avanti la nostra storia familiare senza mai vantarsi del peso che portavano.

In una pagina di quel testo immaginario parlerei di come ci si sente a crescere accanto a qualcuno che ha un modo tutto suo di essere presente. Una presenza che non ha bisogno di parole, che si esprime con gesti piccoli, come rimettere a posto un coltello dimenticato sul tavolo, come fare un cenno con il capo prima di uscire al mattino presto. Io non ce la faccio ancora, a mettere a posto il coltello dimenticato; devo dire Fallo, non è che sono grande, è che sono piccolo e sto cercando di imparare. C’è una parte di noi che si costruisce in quelle presenze silenziose, nelle semplici accettazioni di un affetto che non ha bisogno di complimenti o grandi dichiarazioni.

Quella parte di noi accetta anche di stringere la mano, se prova rabbia, e tagliarsi le dita contro la lama, le dita delicate, segnate da una riga viola.

Ma questa è una lettera che non scriverò mai.

Forse perché ogni volta che penso di riordinarla, mi rendo conto che il ricordo stesso è fragile, e tentare di metterlo su carta rischierebbe di alterarlo. Il gesto di riordinare il passato, di dargli una coerenza e una logica, sembra quasi una mancanza di rispetto per quei momenti che hanno vissuto nella loro caotica bellezza, o nel caos e basta, e vaffanculo, appunto, senza sapere di essere osservati.

Mi chiedo spesso come si faccia a crescere vicino a qualcuno e capire, solo molto tempo dopo, quanto ci abbia dato. Una volta, credo che fossimo a cena, qualcuno disse che la nostra capacità di amare si misura dal dolore che possiamo sopportare per un’altra persona. Allora non avevo capito il significato, mi sembrava solo una frase ad effetto. Ma ora, guardando indietro, comprendo che c’è una verità sommessa in quelle parole. C’è una parte di noi che si scopre capace di pazienza, di perdono, di sacrificio, proprio grazie a chi, senza saperlo, ci ha insegnato cosa significa esserci, sempre.

In un’altra pagina di questa lettera, parlerei dei piccoli dettagli che si mescolano ai grandi vuoti. Racconterei di quelle notti in cui dormo. La gente mi invidia, per come dormo rapidamente; ma a volte penso che mi meriterei un po’ di insonnia, di tormento, e mi domando se riuscirò mai a ricordare davvero tutto, ogni dettaglio. (Come ieri sera, pensavo: e se domani cade, pulendo le finestre, riuscirò ad afferrarla? Riuscirò a stringerla forte, e tirarla su, a rischio di staccarmi la spalla?) Mi immagino accanto a chi non c’è più, cercando di tenere saldo ogni frammento. E, in un certo senso, so che è impossibile: ogni ricordo è una reinterpretazione, ogni volta che richiamo un’immagine la cambio, la riscrivo senza volerlo. Ma continuo a farlo, come se ricordare fosse un modo per tenere stretto qualcosa che è destinato a svanire.

Forse, dopotutto, una lettera così non va scritta. Lasciare che certe cose restino non dette è un atto di rispetto, un modo di dare valore a ciò che non ha bisogno di spiegazioni. O forse la verità è che non so come fare a racchiudere l’essenza di una persona in poche righe, senza sentirne la limitatezza. Senza sentirmi limitato, esploratore di un mare con una barchetta in compensato che non regge manco me.

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