Tre ricordi sul papà

Voglio parlare di tre aneddoti sul papà, oggi che è il 19 marzo, partendo da tre ricordi su mio padre.
Nel primo, siamo in una festa di santa Lucia di tanti anni fa. Papà lavorava lontano, a Reggio Emilia. Eravamo ancora in tre fratelli, Mariasole non c’era – era l’84, forse addirittura prima -, Mary ricevette un regalo incredibile.
Era una casetta in legno dalla pianta di due metri quadri, forse tre, alta un metro e mezzo, bianca ma col tetto rosso – metà tetto, l’altra metà non c’era in modo che un adulto, sporgendosi dall’alto, potesse controllare. Il pregio era nei particolari: c’era una porticina rossa, di un rosso terra, c’erano due finestrelle con le ante che si aprivano, anch’esse rosse, c’era una mensolina bianca sulla quale Mary avrebbe appoggiato le Barbie. Papà (ma per noi Santa Lucia) aveva comprato il legno o l’aveva trovato, aveva segato, piallato, trapanato, avvitato, inchiodato; il risultato era quello, gli occhi di Mary me li ricordo ancora. Quando non sapevamo dove lei fosse, di solito era il primo punto in cui andare a controllare: andavamo alla casetta sul terrazzo e ci sporgevamo alla finestra, lei stava servendo il tè a Cirilla Cavolina, le dicevamo: Mary, mamma ti vuole, lei rispondeva: Arrivo.
Nel secondo, papà sta mangiando con noi i carciofi. C’erano di solito due modi per preparare i carciofi: fritti o bolliti con rosmarino e pezzetti d’aglio. I carciofi bolliti, che di solito arrivavano a fine della cena, li prendeva in mano, staccava una foglia, se la piazzava tra i denti; poi tirava la foglia verso l’esterno stringendo i denti, in modo che la polpa restasse incastrata sugli incisivi e la foglia uscisse coi segni di un morso.
Quando arrivava al cuore, papà lo puliva dalle ultime foglioline – quelle spigolose – e poi lo allungava noncurante a mamma, o a noi; poi prendeva un altro carciofo, riprendeva il rito.
Balena
Nel terzo, papà è in ospedale e siamo a giugno del 2012. Sono due anni che non ci parliamo, lui è stato a Castellammare, è tornato gravemente malato; io sono abituato ai suoi Al lupo!, penso che sia una nuova scena, poi capisco che no. Gli scrivo una lettera di due pagine, forse ce l’ho ancora, non voglio controllare; è piena di risentimento e bisogno, dure accuse. Papà mi dice che mi vuole parlare, ci abbracciamo sul suo lettino d’ospedale mentre un ciccione alle nostre spalle urla al telefono che i venti euro sono sul Toro vincente, non perdente, a me sembra che in tutto quel tempo mi sia mancata l’acqua e sono una balena che non voleva fare altro che nuotare.
Ora, i miei pensieri su questi aneddoti sono tre, e sono il mio augurio ai padri, ai figli.
Il primo è che mio padre, facendo quella casetta, lavorò di nascosto a lungo in modo da curare la felicità di sua figlia quando lui non fosse stato presente. Piallò, come ho detto, sapendo che il merito se lo sarebbe preso santa Lucia, martellò, inchiodò, avvitò; lui colse solo gli occhi, seppe che sua figlia sarebbe stata lì con quegli occhi quando lui fosse stato a Reggio Emilia. Ché essere padri attenti e premurosi in presenza, se ci pensate, ci vuole relativamente poco; esserlo in assenza, quando il lavoro grava e tua figlia vuol solo servire il tè a Cirilla Cavolina, richiede impegno ma ripaga.
Il secondo è che curarsi a fondo della propria felicità a volte chiede di staccarsi dalla gratificazione; perché se c’è un cibo buono quello è il cuore del carciofo, ma quando sei sintonizzato sul bene che ti fa vedere la soddisfazione di chi ti sta accanto, allora distaccarti dal tuo piacere senza darlo a vedere ti dà un piacere che ti riempie ben di più, quanto ti infonde di vita vedere sorridere chi ami.
Il terzo è che c’è un momento in cui i concetti di giusto e sbagliato perdono di significato o si fanno indistinti, e allora al posto di quelli sopravanza un altro concetto di cui si stanno perdendo le tracce, è il concetto del: bisogna.
Oportet, lo chiamavano i latini, ed è un verbo che ci manca. Perché puoi aver ragione o avere torto, puoi aver sofferto o essere stato carnefice, ma quando il lettino d’ospedale è così freddo e largo, e sei un numero o ti senti tale, l’acqua ha bisogno della sua balena e la balena non vuole nient’altro che l’acqua in cui perdersi, mi sei mancato e mi mancherai ancora, sempre, non c’è un cazzo da fare.
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