Quando scrivo ho in mente le nuvole
Quando scrivo, di fronte a me ho un giardino.
È un giardino incantevole che contiene due casotti in legno, un barbecue in pietra, mi pare – ora non lo vedo, ma mi sembra di ricordarlo -, tantissima erba. Qualche giorno fa, anche se siamo in aprile e le luci colpiscono il ferro e abbagliano, era totalmente innevato; solo sui piastroni di cemento che i vicini usano per attraversare la terra evitando il fango s’era già sciolta, chi ne sa il motivo.
Ogni tanto lo attraversa un cane, è un cane da caccia, o forse no, chi c’è stato, a caccia; corre, non l’ho mai visto accucciarsi, pare corra soltanto con l’entusiasmo dei cani.
Il giardino è circondato da una larga siepe, spessa e alta, serve per chiudere lo sguardo ai vicini del pianoterra e alla strada: ma io sto al primo, vedo tutto, chiudo le imposte se voglio silenzio o se il sole mi spacca gli occhi entrando di traverso.
Mi piace fermarmi a guardare gli uccelli. Passano dei corvi, a volte si posa un gufo sulla tettoia del casotto che mi è più prossimo, sta talmente immobile che devo aguzzare la vista per scoprirlo; mi fermo a osservare i giri che fanno, si posano sui rami dell’olmo, qualche passerotto si ferma sul mio balcone, si guarda intorno come se fosse capitato lì per caso, va.
Se alzo lo sguardo vedo oltre i camini vedo le nuvole. Sono là, appoggiate anche loro come l’usignolo al cielo; di solito allungate, sfilacciate, sempre sul punto di dissolversi per poi ricomporsi in altre forme. Non presto loro molta attenzione, non presto loro molta attenzione, il cervello si incarta e non presto loro molta attenzione, torno a riordinare una casa sempre in disordine, ad aprire un libro, aprire un versarmi del tè, ascoltare musica, e musica, e musica che mi mancava; quando mi ci soffermo mi ritorna sempre in mente lo stesso giorno.
[ah ah ah | ah ah ah].
Eravamo bambini, era primavera, era l’argine che dalla chiesa di San Martino – in cui mi sarei sposato venticinque anni dopo – si leva a contenere le furie del Po quando a Torino piove troppo, o a Piacenza; o quando si alzano i vari affluenti.
[ah ah ah | ah ah ah ah].
Ma quello era un giorno di sole, i due gradoni che l’argine fa e che quando c’è neve scendevamo con lo slittino erano ricoperti di viole e soffioni, margherite che noi cinque raccoglievamo a mazzetti per poi lanciarle in aria, due ne porto alla mamma.
[ah ah ah | ah ah ah].
Denis si buttò a terra mentre Alberto e Matteo si rincorrevano, chissà chi inseguiva chi; mi misi accanto a lui, puntò il dito in alto, disse: Guarda che belle, le nuvole. Erano belle, sì, erano sempre state lì, sarebbero sparite e ne sarebbero apparse delle altre, ma il cielo quello è.
Papà era vivo, io ero innocente, tutto era possibile.
[ ah ah ah ! ah ah ah ah].
Le nuvole per me da allora non hanno mai smesso di essere belle. Il mio giardino s’è riempito. Di madonne pugnalate, di vacche, di sedie rovesciate, bottiglie vuote che non ho avuto il coraggio di portare al cassonetto del vetro; di fogli accartocciati che non ho spiegato.
Le nuvole, sopra tutto, lì. Non hanno bisogno di essere portatrici di gocce, né agglomerati di niente, scure e spugnose o fragili e pronte al nulla.
Sono nuvole, via, come noi; che chissà se si dissolvono veramente, o se quando pare che stiano scomparendo ecco che tornano, ciao, come sei bella così bianca, sto qui ancora un po’, abbiamo tempo da perdere.