Per favore non sparate sul pianista
Sono sul treno per Bergamo.
La newsletter sta per partire, gli iscritti ieri sera erano 44, stamattina sono 80; domani è il compleanno di una di loro, ho dovuto correggere il compleanno di un’altra, ha invertito giorno e mese.
Indosso le cuffie antirumore e mi metto a scrivere. È tutta questione di cura, ci dicevamo stamattina; ci dicevamo che dovremo sfatare i luoghi comuni, e uno dice che la scrittura deve essere luogo d’evasione, e invece è terra d’invasione.
Ma tutto, anche l’invasione, nasce da quella cura.
Per me essere scrittore nella pelle, nelle cicatrici, sotto la pelle, è esserlo negli sms. Non tralasciare un punto su WhatsApp. Curare i condizionali se parlo allo stadio. Allenare il mio sguardo mentre entro nelle coperte, la sera; e pensare che il dettaglio dei fiorellini sul tessuto lo devo rimuovere, alla svelta, per preservare il nitore dei miei occhi sul mondo.
La scrittura è una forma di cautela.
Un libraio non consiglia libri di merda nel momento in cui chiude la serranda. Un calciatore che cammini per strada e cui giunga per sbaglio un pallone sarà un calciatore fallito se non sorriderà tra sé tirando un piattone verso i bambini. Una persona gentile non smette di esserlo quando rientra in casa e chiude la porta; un ladro non smette di esserlo nemmeno se gli chiedono di custodire un portafogli, per piacere.
Ma la scrittura non è una cosa che ammanta la vita; la scrittura è la vita. Fa parte di te non come una corazza, ma come la pelle.
Scrivere significa dire alle persone che ami: Oggi non ti amerò, non farò gesti per te, ma costruirò un universo nel quale tu possa muoverti con purezza. Ci prendiamo delle parole se scriviamo di figa e di cazzo e sperma, sa scrivom in dialët, se lavoriamo su concetti indicibili, se il pensiero coltivato per settimane non è comprensibile in tre due uno, o espresso in maniera irreprensibile per degli sguardi arresi, delle intelligenze arrese. Ma l’abbiamo fatto di notte, ci siamo tartassati su un verbo mentre facevamo la spesa, abbiamo preso appunti in palestra; ci siamo interrogati se fosse giusto dire figa o fica. A voi questa gentilezza è arrivata alle spalle; e spesso nemmeno la riconoscete.
E ci va bene.
Siamo andati a cercare la ë, segnandoci mentalmente Alt+0235, perché altre persone avrebbero scritto dialèt, o dialet; ma non avrebbe reso la mezzanità della mia terra.
Siate cortesi con lo scrittore. E quando vi tende il cappello, non lanciategli un tappo di bottiglietta.
Primo, perché guarderà la T stampata sopra e sorriderà, e dirà Ce ne vorrebbe una; e in un mondo in cui molti imprecano perché la metro ha un minuto di ritardo, Dio Cristo, vedere che qualcuno accoglie anche i vostri rifiuti e dice Ce ne vorrebbe una è consolazione.
Secondo, perché se tendiamo il nostro cappello lo stiamo facendo per un euro di diritti a libro, se ci va di culo.
E in quell’euro dovremo includere ciò che mangiamo, e il caffè che prendiamo per restare vigili anche quando tutto crolla, e l’energia con la quale scriviamo perfino questo testo, o lo correggiamo; e i secondi che abbiamo speso per aggiungere un puntino, o aprire la mappa caratteri, per far tornare naturale ciò che, almeno apparentemente, naturale non lo era più.