Intanto che esce il saggio
L’altra sera mi sono messo a parlare con uno scrittore amico. Abbiamo ragionato insieme sul suo libro; me lo sono portato dietro, tutto spiegazzato, i segni a penna, qualche riflessione che gli ho detto a voce era forse chiara; altre attutite dall’alcol e dalla compressione.
Mi ha offerto delle mandorle, dicendo: Occhio, sono amarissime.
Erano amarissime.
Poi sono tornato a casa e mi sono messo a lavorare al mio romanzo. Il titolo c’è già, la casa editrice no; ma il problema non è la casa editrice. Come sempre succede, è la quadra con la voce. Quando hai trovato la voce, trovi il romanzo; quando trovi il romanzo, la casa editrice ti vuole. Per me è sempre un lavoro di opposizione; dico qualcosa contro qualcuno o qualcosa, faccio sfogare un rancore o una passione, slego i cani – come diceva Jack Ketchum, Scrivo ciò che mi fa incazzare -, poi mi rilasso e dico No, dài, calma; poi torno e torno; poi, finalmente, mi levo dai coglioni.
Questo brano, quello sotto, sono ancora presente, non mi sono ancora levato dai coglioni.
Mi piace metterlo qua, perché mi dà una sensazione di confidenza.
Come se finalmente fosse a contatto con l’aria; e poi è quello che devono fare i prodotti, andare a contatto con l’aria e vedere l’effetto che fa.
E le ferite.
I prodotti e le ferite.
I.
Sei mesi dopo, in una cabina telefonica, dissi alla ragazza che amavo che non volevo far l’amore con lei. Dentro di me sentivo a ripetizione solo il ritornello di una canzone di Carboni. Mario Chiesa era stato arrestato, la Pravda aveva chiuso, Falcone era saltato per aria, Borsellino era saltato per aria. Chissà se ne avevano mai trovato tutti i resti; chissà che lavoro doveva essere, quello di chi trova i resti. Io faticavo a respirare, da quanto le parole di dentro cercavano di uscire fuori; e da quanto la vergogna le ricacciava dentro. Gli uccelli mi sembravano tutti neri, e tracciavano traiettorie imperscrutabili; i paesaggi intorno a me erano tutti di Ghirri. Mentre lei mi parlava leggevo le affissioni funebri, così simili.
È mancato all’affetto dei suoi cari.
È mancato improvvisamente all’affetto dei suoi cari.
È morto, pensavo. È crepato, ha tirato le cuoia, si è estinto; non c’è più.
Dentro le parole erano già tutte perfette, ritmiche e precise, adattate come pali di una palizzata a un terreno che delimitavano, che ancora non sapevo cosa contenesse; ma non uscivano. Lei mi disse: È meglio se torniamo a essere amici, non siamo speciali, come persone?; e in me qualcosa si fratturò.
È morto.
Uscendo dalla cabina, schiacciai forse dieci volte il tasto del resto. Pensai: Speciale ‘stocazzo.
Non ebbi mai voti migliori, a scuola; non conobbi mai un’infelicità così rara. Mio padre mi regalò il suo Minichic, una motoretta bassa e arancione mentre tutti avevano il Ciao con la marmitta bucata, il Fifty truccato, e i più fortunati iniziavano a schiantarsi con lo scooter; gli augurai ogni male.
A diciotto anni mi diedi del coglione, e persi la verginità con la madre di Agnese. A ventuno mi innamorai di una pornostar. Le scrivevo lunghe email dallo studentato; cenavo coi cereali aspettando il pop di You have new mail: sognavo di salvarla mentre scaricavo le sue foto, guardavo i suoi sguardi, il suo corpo; come si sistemava i capelli. Le mandavo in allegato le mie foto sul Minichic; lei mi diceva Che figo.
A ventiquattro avevo già capito che chi aveva bisogno di essere salvato ero io. Papà aveva ripreso a parlare, aveva smesso e aveva ripreso; aveva già avuto il primo infarto ed era in attesa del secondo. Io e Marina, nell’appartamento nella palazzina accanto a quella in cui stava lui, passammo la notte ad annusarci. Lei era venuta in treno da Genova, aveva prenotato una camera nella mia stessa via; ci eravamo divertiti a guardare dalle tendine mia madre che faceva i piatti, mia madre che cucinava, mia madre che si alzava e che tornava; intanto, mangiavamo noccioline prese al supermercato all’angolo. A un tratto alzai lo sguardo, e mi parve di vedere una luce nella casa di fronte; quello fu il momento in cui papà ebbe il secondo infarto, quello definitivo. Il corpo di lei era un corpo come non ne avevo conosciuti, allenato a essere donna, con i peli, le sopracciglia, i fianchi, l’ombelico da donna; e il mio era da uomo; la mattina, dopo che m’aveva detto: Vienimi dentro, sbucciammo mandarini perché avevamo sete e fame.
A trent’anni, decisi che era ora di fare famiglia e di raccogliere un’eredità, per poi accorgermi che ero solo stupido.
Poi, che era ora di recuperare ogni torto.
Poi, cominciai ad andare alla stazione a guardare i treni.
5 commenti su “Intanto che esce il saggio”
Leggendo, mi è scorsa davanti agli occhi una parte di vita… Come a rincorrere sempre qualcosa che gli altri sembrano avere già raggiunto, o capito. Con un moto di ribellione dentro per il conformismo ma patendo un po’ il confronto. L’idea di giustizia che salta in aria, come chi ha combattuto per farla diventare realtà, lasciando un vuoto che non si colma nemmeno pensando di amare e sperando di essere ricambiati. Mi ci rivedo, nel non aver modo di trovare il sincrono con il mondo che, rispetto a me, gira a 33 e io a 45. Mi hai aperto una voragine di riflessioni. Bellissimo… Grazie! Luisa
È il punto del romanzo, credo. Il protagonista è fuori sincrono. E anche dopo, quando andrà in sincrono, sarà il mondo ad andare fuori…
Ti ringrazio per le belle parole, sai?
i.
Oh.
Punto.
Grazie.
Sai.
Punto.
Ecco. E adesso come si fa ad aspettare?