Ci meriteremmo Alberto Sordi

Alberto Sordi

Quest’anno – ieri, poi – sono vent’anni che Alberto Sordi non c’è più; questo è un piccolo ricordo.

Di Sordi c’è una scena che mi viene in mente, e che tutti ricordano; ed è una scena di Ecce bombo, di Nanni Moretti – peraltro: uno dei film più citati della cinematografia mondiale -, in cui lo stesso Moretti dentro un bar urla: Te lo meriti, Alberto Sordi.

Penso che la scena sia bellissima, e che la citazione sia ingenerosa.

Come se scambiassimo il Leonardo Da Vinci della Dama con l’ermellino col Leonardo di Non ci resta che piangere, eccitato per le scoperte che gli portano, dal futuro, Troisi e Benigni; o con un babbeo Jerry Lewis, solo per le sue interpretazioni del picchiatello.

Alberto Sordi ha interpretato spesso lo stesso personaggio – da Moriconi Nando a Fernando Rivoli, da Alberto a Peppino, senza dimenticare il Dentone e il meraviglioso, meraviglioso Giovanni Vivaldi del Borghese piccolo piccolo. Ma questo personaggio rozzo, furbo, snodato, spesso d’estrazione popolare, spesso con velleità di sollevarsi da questa condizione, era un personaggio, appunto: che Sordi riusciva a ipercaratterizzare grazie a una maestria artistica e una capacità d’osservazione rare.

C’è un film in cui non mi è piaciuto, ed è Troppo forte; in questo, lo dice anche Verdone, il suo tono macchiettistico andò sopra le righe, svaccando le tenuità della narrazione di Verdone – che quasi lo deve rincorrere, in ogni scena in cui appare.

 

Verdone, peraltro, è uno di quei maestri della comédie humaine del cinema italiano, figli di Monicelli e Scola, insieme a Troisi, a Nuti, il primo Benigni. Ieri sera vedevo Coffee and cigarettes, di Jarmusch; è commovente vedere la ferocia recitativa di quel Benigni, notare come la tensione del caffè – e quella del nonsense – gli appartenessero, li vestisse insieme ai consueti abiti troppo larghi da portare come fosse un appendino.

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Cosa ci manca di Alberto Sordi? Cosa ci manca, a distanza di tempo, di Villaggio, dell’immenso Ugo Tognazzi, e di quegli attori che hanno convogliato le scenette in narrazioni comiche e drammatiche insieme?

Credo la figura del povero stronzo. Ecco: in un mondo di stronzi, ci manca il povero stronzo. Colui che era capace di vendette inaudite o di piccole miserie, senza ma; e lo faceva in un mondo in cui essere stronzi e poeti era una condizione esistenziale. Penso a Renato Salvatori che ne I soliti ignoti prende tre ombrelli, per le sue tre mamme. A Paolo Villaggio, appunto, che fa di Fantozzi l’apogeo del solito stronzo, che difende la figlia Mariangela dal consiglio d’amministrazione e contemporaneamente cerca di tradire la moglie. Tognazzi, che nel ruolo del conte Mascetti fa il rigatino e intanto medita il suicidio. A Totò, ovviamente, che ne La banda degli onesti cerca di frodare il prossimo ma intanto si muove sul baratro della povertà. Erano italiani di condizioni esistenziali misere; e questa miseria apriva uno squarcio sull’esistenza di ognuno di noi.

Ci meriteremmo un Alberto Sordi, ora che dagli operai si è passati ai professori, agli industriali disillusi, ai manager feroci.

Sordi era degno erede di una romanità che cadeva dall’alto, dai versi di Trilussa:

C’è un’ape che se posa
su un bottone de rosa:
lo succhia e se ne va…
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.

E da quelli più scanzonati del Belli:

Cosa fa er Papa? Eh ttrinca, fa la nanna,
Taffia, pijja er caffè, sta a la finestra,
Se svaria, se scrapiccia, se scapestra,
E ttiè Rroma pe ccammera-locanna.

Copiava il popolo, perché sapeva che c’era, il popolo – era talmente lì, il popolo, che per allontanarsene bisognava fare opera d’astrazione.

Ecco cos’hanno fatto, Sordi e i nostri grandi: si sono ricordati che c’era il popolo. Forse dovremmo tornare a farlo pure noi, ce lo meriteremmo. Aiutano a capirlo queste ultime, deliziose, parole di Enzo Jannacci.

"Ho visto la sua carezza e, per quanto mi riguarda, ho visto Gesù. Ero piccolo, mi trovavo su un tram, c'era un signore che era talmente stanco che il braccio gli cadeva, una, due, tre volte. Portava gli occhiali, di quelli da vista, ma da povero, di quelli che non sono stati valutati da un oculista e neanche un ottico. Un povero operaio stanco. Gli caddero quegli occhiali e non sapevo se raccoglierglieli o meno, così nell'esitazione sono andato oltre, attratto dal tranviere che era alla guida. Quando mi sono girato quell'uomo aveva di nuovo gli occhiali ed era sveglio. Insomma, aveva un'altra faccia, come se avesse ricevuto una carezza, rincuorato. Amo credere che sia stato Lui. Altri penseranno diversamente, ma io ci credo molto. Lo cerco, parlo con Dio e non ho bisogno di dirgli nulla perché sa già cosa faccio e cosa farò, dove finirò... sa già tutto". Enzo Jannacci, intervista ad Avvenire, mercoledì 26 agosto 2009.

PS. Se poi volete intervenire sui vostri, di stronzi personali, e tramutarli in narrazione, e disinnescarli, al Penelope Story Lab abbiamo creato un corso apposito. Insegno io. Si chiama L’avvelenata, e vi consiglio di leggere il programma.

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